Fonte: www.comunicazioneinfarmacia.it
Oggi ci sono evidenti problemi di rotture di stock. Si tentano soluzioni, ma conosciamo davvero le cause? E serve cercare le cause?
Leggevo, in questi giorni, dell’incremento dei problemi di distribuzione, rotture di stock, farmaci mancanti, … Leggevo anche di una proposta che obbliga il farmacista a fornire il prodotto (ogni prodotto) entro 72 ore.
Chi ha avanzato la proposta conosce davvero poco il problema, che è complesso, ed ha origini lontane nel tempo, e nello spazio. E mi sono resa conto che, in termini di management, questa è una situazione davvero emblematica delle complessità che esistono oggi, e che si manifestano sempre più frequentemente. È un fenomeno noto, attualissimo, che sta completamente rivoluzionando le tecniche di gestione e le scuole di business.
Si è sempre saputo che, per una buona gestione e per risolvere i problemi che man mano si presentano, cercare i colpevoli è totalmente inutile. Cercarne la cause era, invece, considerato sostanzialmente utile, almeno per evitare di ripetere il problema.
Oggi, invece, sempre più frequentemente siamo chiamati, come manager e come individui, ad affrontare problemi le cui cause si perdono in decine di anni prima, e le cause sono talmente tanti piccoli fattori concatenati che i consueti metodi di management non sono più né utili né efficaci.
Esaminiamo, a titolo anche di esempio, le cause degli attuali problemi di approvvigionamento dei farmaci.
Circa 20 anni fa, anno più, anno meno, le multinazionali farmaceutiche hanno avviato un processo di fusioni e acquisizioni.
Le normative, sempre più rigorose, per lo sviluppo dei farmaci ne hanno fatto lievitare i costi. I tempi di sviluppo, che sono sempre stati lunghi, incidevano anch’essi pesantemente sui costi.
Il farmaceutico è sempre stato un settore con elevati margini di profitto, ma cominciarono a ridursi. Parallelamente le grandi aziende, ormai tutte quotate in borsa, avevano invece una necessità sempre più assoluta e pressante di incrementare i profitti, pena la vendita delle azioni da parte di azionisti che, spesso, non sapevano neanche con precisione di cosa erano azionisti.
Se la riduzione dei costi era diventata essenziale, la riduzione delle spese era una buona risposta. E la razionalizzazione della produzione era (almeno apparentemente) una soluzione che tagliava sprechi senza intaccare gli investimenti per lo sviluppo.
Praticamente tutte le grandi aziende chiusero stabilimenti produttivi e concentrarono la produzione in pochi stabilimenti altamente specializzati. Un’ottima soluzione per rispondere, anche, alle sempre più rigide regole per una produzione di qualità, che richiede personale altamente specializzato.
Produzioni concentrate equivalgono anche a risparmi notevoli per economie di scala, e enormi riduzioni di tempi morti: ogni produzione poteva così lavorare a pieno ritmo.
Quando tutto è andato a regime, i tempi tra la produzione di un lotto e l’altro di un prodotto, soprattutto se si trattava di un prodotto che non vende milioni di pezzi all’anno, si sono allungati: alcuni prodotti, o alcune forme farmaceutiche, vengono prodotte anche solo una volta all’anno.
Poi la flessibilità dei siti produttivi si è quasi azzerata: lavorare a pieno ritmo significa avere un piano di produzione dettagliato e rigido.
Apparentemente tutto questo non causava grossi problemi: bastava avere persone più “brave” a fare le previsioni di vendita (e a rispettarle) e ottimizzare i reparti che fanno pianificazione di produzione, ed è stato fatto.
In ogni caso i magazzini e i canali di distribuzione (farmacie e grossisti) erano pieni, con volani distributivi di alcuni mesi.
Certo, qualche difficoltà si manifestò subito, ma era davvero poca cosa rispetto ai risparmi ottenibili, e tutti confidavano che fosse solo una fase di assestamento. Aspettativa legittima, ma, ahimè, totalmente errata. Perché le scorte costano, i magazzini pieni costano, e tanto!
Così poco alla volta i magazzini delle aziende si sono “svuotati”. I farmacisti prima e grossisti poi hanno ridotto drasticamente le scorte.
E su questa situazione, potenzialmente con un basso grado di criticità, si è instaurata una complicazione italiana: la riduzione dei costi.
Già a livello internazionale l’Italia non è certo il Paese con i più alti margini per le aziende farmaceutiche che, vi ricordo, sono quotate in borsa, e obbligate a sottostare alle famose leggi del Mercato.
Se aggiungiamo che più volte ci sono state riduzioni di prezzi dei farmaci, e quindi “improvvisamente” un magazzino che valeva 10 è diventato, in tempi brevi, a valore 9,9 o 9,8, poco importa, ecco che le scorte dei farmaci sono andate sotto il livello di guardia, e ben poche multinazionali sono sostanzialmente disponibili a modificare i piani produttivi (cioè ad aumentare i costi) per un Paese strategicamente poco rilevante.
Questo, in una sintesi molto breve e non approfondita, l’origine del problema.
Ed ora ditemi voi con chi ce la possiamo prendere, scegliendo tra la borsa, il Mercato, il Governo. A meno che non vogliamo prendercela con gli ultimi anelli della catena, grossisti, farmacisti o strutture locali delle multinazionali che, avendo scarsa voce in capitolo sui grandi aspetti strategici, si impegnano al massimo per salvare il proprio posto di lavoro.
Mi sembra anche ovvio che, con una complessità di questo tipo, e con cause che si perdono nella notte dei tempi, la consueta analisi razionale del problema, qualunque strada scegliamo per esaminarne le origini, non ci porta più vicino alla sua soluzione.